Matoh: intervista per il nuovo singolo “Oroboro”

 

Con “Oroboro”, Matoh racconta il ciclo infinito dell’ansia e la sensazione di restare intrappolati dentro sé stessi. Il simbolo del serpente che si morde la coda diventa metafora di una routine mentale che si ripete, dolorosa ma familiare, dove il conosciuto fa meno paura dell’ignoto.

Il brano alterna lucidità e smarrimento, seguendo un loop emotivo continuo che trova una potente estensione visiva nel videoclip in bianco e nero diretto da Gianluca Scalia e prodotto da Kemedia: un rito visivo essenziale e intimo, fatto di microgesti e tempo sospeso. In questa intervista, Matoh apre le porte del suo mondo interiore, trasformando una fragilità personale in un racconto condiviso.

Il videoclip di “Oroboro”, diretto da Gianluca Scalia e prodotto da Kemedia, è un micro–rituale visivo in cui il corpo diventa specchio e frattura mentre il tempo rallentato, materico sembra ripetersi, divorare sé stesso, rigenerarsi: come il simbolo dell’ouroboros. Girato in bianco e nero e con un’estetica volutamente essenziale, il video lavora su gesti minimi. La camera resta vicina, quasi respirante, come se il corpo fosse un territorio da esplorare. Il risultato è un atto intimo e simbolico: una riflessione per immagini sulla ciclicità, sull’autopercezione e sulla possibilità di rinascere mentre ci si osserva dissolvere.

Il videoclip di Gianluca Scalia è un rito visivo lentissimo, quasi ipnotico. Qual è stata la prima idea che avete messo sul tavolo?
La prima idea è stata subito quella del mimo che attraversa le varie fasi della giornata, che sono un po’ quelle della vita: il dolore, la solitudine, lo smarrimento, la speranza, l'amore.

L’uso del bianco e nero amplifica il senso di sospensione. Com’era sentirti così “nudo” davanti alla camera?
Riportare in video i sentimenti che mi hanno spinto a scrivere Oroboro è stata la cosa più naturale del mondo. Perchè in fondo è più grande la paura di sentirsi nudi davanti a se stessi, che davanti al resto del mondo.

Il video lavora sui microgesti. Qual è stato quello più difficile da tenere autentico?
Questo è il bello: è stato tutto autentico. Per fortuna (o purtroppo) davanti alla videocamera non c'era Matoh, ma Mattia. Ho più volte dovuto trattenere la commozione, perchè in quel momento tutti i miei pensieri, le emozioni di quando ho scritto Oroboro, adesso diventavano tangibili, diventavano realtà.

La ciclicità del tempo filmata da Scalia rispecchia quella del brano: com’è stato vedere il tuo loop mentale tradotto in immagini?
Mi ha spaventato, ma mi ha anche fatto sentire a casa. Ciò che per mesi, anni, navigava solo dentro di me, è diventato pubblico. Una volta pensavo che il miglior modo per affrontare le cose fosse non affrontarle, ma visualizzare i miei demoni nel brano e nel videoclip, mi ha dato ancora di più la conferma che bisogna invece combattere sempre con tutte l'energia possibile, anche e soprattutto quando ci sembra di non averne neanche un po’.

Qual è, per te, il messaggio nascosto del videoclip che forse non tutti noteranno?
Il videoclip racconta una storia. Non la mia, non di Matoh. Il trucco da mimo serve a rendere il mio volto una tela bianca, su cui ognuno può dipingere se stesso. Oroboro può parlare di tutti noi, di chi si sente o si è mai sentito così. Il protagonista del video è lo spettatore, e quello che spero è che chiunque si sia immedesimato nelle mie emozioni possa sapere che non è solo, che è compreso, che bisogna lottare, tutti insieme, per uscire dal buio.

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