Intervista a Francesco Cusa, scrittore e musicista

Oggi abbiamo il piacere di ospitare un artista a tutto tondo: Francesco Cusa, da sempre interessato all’interdisciplinarità artistica, batterista, compositore, scrittore di racconti, romanzi e poesie. Inoltre, ha pubblicato diversi articoli di musicologia e di critica cinematografica presso molte riviste specializzate. 

Chi è Francesco nella sua passione per l’arte della scrittura e della musica?
Ho sempre scritto, fin da giovane. Anche se sono più conosciuto come musicista, questa dello scrittore è per me divenuta una professione da circa una decina di anni, quando ho deciso di rendere pubbliche le mie opere letterarie sotto forma poetica, saggistica, poi esplorando l’aforisma, il racconto ed il romanzo. A spingermi sono stati molti amici e conoscenti. Se ho un rimpianto, forse, è quello di non aver cominciato prima. Poi, certo c’è tutta la mia carriera da musicista, critico letterario e cinematografico ecc. Diciamo che sono vari aspetti connaturati alla mia esistenza, codici che uso per testimoniare un sentire, la mia filosofia di vita.

Qual è il filo conduttore che lega la letteratura e la musica?
Esplorare nuovi mondi, sondare i limiti percettivi e della fantasia. Compito di ogni artista è quello di scavare, con picconi, zappe, mani e unghia, di divorare l’esistente, di non lasciare spazio alla tergiversazione. Ogni artista compie gesti totalizzanti e assoluti. Scrivere è una vocazione non un lavoro, e produce lacrime di estrema gioia, così come suonare o dipingere. Solo da queste lacrime possono sgorgare stille di senso. È un costante lavoro di scavo teso sa rimuovere le macerie della psicanalisi per penetrare più a fondo nella ricerca: è il campo dello sciamano, del visionario, del Magus, dei veri speleologi dell’Anima.

Hai collaborato con artisti provenienti da varie parti d’Italia e il tuo percorso artistico ti ha portato a suonare, negli anni, in Europa, America, Asia e Africa. Vuoi raccontarci qualcosa di queste esperienze?
Come musicista, una svolta è stata la mia decisione di trasferirmi da Catania a Bologna alla fine degli anni Ottanta, nella Bologna ancora pregna dell’humus della ricerca e intrisa di fermento. Erano gli anni della “Pantera”, delle lezioni al DAMS con Eco, Nanni, Celati, Clementi, Donatoni, gli anni della nascita di importanti collettivi artistici come quello di “Bassesfere”, di cui sono uno dei fondatori. È parte di un percorso che si dipana fra studi di batteria, concerti con Steve Lacy, Tim Berne, Kenny Wheeler, i tour per ogni dove, la creazione dei miei progetti da leader come “66sixs”, “Skrunch”, “The Assassins”, “Naked Musicians”, fondazione di una label e di un collettivo come Improvvisatore Involontario, l’insegnamento in conservatorio… Bassesfere ha rappresentato simbolicamente il senso del collettivo artistico, ancora prassi e laboratorio in quei fervidi anni. Poi, pian piano, le mie velleità di scrittore e critico sono tornate e adesso convivono amorevolmente col mio essere musicista. I tour sono un’esperienza straordinaria ma anche molto stancante: è stata comunque una fortuna il poter viaggiare per conoscere nuove realtà e incontrare straordinari artisti di ogni parte del mondo.

“VIC” è il tuo nuovo romanzo. Ce ne vuoi parlare?
Vic è un ragazzo-uomo maturo-anziano che vive la sua schizofrenica vita di scrittore in un luogo immaginario del Sud dell’Italia: Cotrone. È un personaggio che rappresenta il trauma irriducibile, il caso clinico principe oggetto delle ricerche dei freudiani. Fortunatamente lui se ne sbatte di tali indagini, giacché egli rappresenta il cortocircuito di ogni narrazione clinica volta all’individuazione del caso topico, del “problema” su cui orchestrare la riuscita di un progetto teorico. In questo senso Vic nasce per ridonare all’Occidente l’aura mitica della legge di natura, ciò che prevale rispetto alla legge morale; in buona sostanza per restituire l’uomo alla sua sacralità. Forse è giunto per consentirmi di esplorare alcuni aspetti oscuri della mia coscienza. Vic si muove nel paradosso della sua vita sregolata e la sua traiettoria incrocia quella del microcosmo di Crotone, invischiando in una ragnatela tutti i personaggi del romanzo. In un certo senso egli è una sorta di santo, di martire, e come tutti i martiri è spinto fino agli estremi del sacrificio in virtù di una visionarietà che non conosce, appunto, limiti terreni. Cotrone è un non-luogo, una specie di realtà morfologica alienata, un limbo posto fuori o sul limitare del Divenire in cui si muovono i protagonisti del romanzo (della mente di Vic, di quella dell’autore). È tutta una periferia di qualcosa, una palude metafisica in cui i morti paiono più vivi dei vivi. Forse mi riconosco in questa esplorazione del limite, inteso più in chiave spirituale che materico-corporale, nella costante ricerca della relazione tra mondo dei vivi e mondo dei morti.



Cosa vorresti che il lettore riuscisse a comprendere leggendo "VIC"?
Come sempre nelle mie opere, sia letterarie che musicali, cerco di muovere le coscienze verso aspetti primari del fondamento dell’essere. Che un romanzo nel 2021 posta destare ancora fastidio, disturbo, perturbamento, trovo sia paradossalmente sano, nella società della prestazione, che produce per converso legioni di depressi, di assuefatti che vegetano ai margini di una protesta che non può più esprimersi in un limbo di soggettività deprivate di immaginario e visionarietà. In questo senso Vic è un personaggio negativo che si oppone alla positività priva di limiti (e perciò logorante) della normalizzazione, l’ultimo baluardo identitario contro l’omologazione.

Progetti futuri che vuoi anticipare ai nostri lettori?
Ho appunto quasi terminato la mia quinta raccolta poetica “Il Giusto Premio”, un nuovo romanzo - “2056” - di natura distopica e fantascientifica, una raccolta di sonetti dal titolo “Rime Sboccate”, un altro saggio dal titolo “L’Orlo Sbavato della Perfezione”. 

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