Con “Quando c’era il Liga”, Mac Parak riapre un cassetto di ricordi condivisi


Il nuovo singolo dell’artista marchigiano è un tuffo nei primi anni ’90, in quell’età in cui tutto sembra possibile e la musica diventa bussola, rifugio, specchio. Un omaggio a un’epoca fatta di semplicità e di colori vividi, ma anche un invito a rallentare, a riappropriarsi di un tempo più umano, meno filtrato.
Mac Parak arriva a questo brano dopo un percorso lungo e sincero, costruito lontano dai riflettori e vicino alla verità delle cose: la scrittura in studio, i live vissuti senza sovrastrutture, la scelta di non trasformare la musica in un obbligo, ma di custodirla come spazio autentico. “Quando c’era il Liga” è il punto di incontro tra ciò che eravamo e ciò che, forse, vorremmo tornare a essere: un racconto che parla ai ragazzi di oggi ma che accende, nella sua generazione, una nostalgia dolce e portentosa.

In questa intervista per Revista Web, Mac Parak ripercorre le tappe fondamentali del suo cammino artistico, riflette sulla frenesia dell’attuale scena musicale, sull’impatto dei social e su cosa significa restare “ricordabili” in un’epoca di consumo rapido. E anticipa i suoi prossimi passi: nuovi brani, un album previsto nel 2026 e progetti audiovisivi che continuano a nutrire la sua visione creativa.

Un’occasione per scoprire l’uomo dietro la canzone, e la canzone dietro l’uomo.

Ci racconti le tappe più importanti del tuo percorso musicale?
Le tappe più importanti risalgono ai primi anni ’90, quando da adolescente cercavo di capire chi ero e dove volevo andare. Ho iniziato come batterista, poi come chitarrista, ma ho capito presto che la mia dimensione era quella del canto e della scrittura. Ho avuto varie band e molte esperienze live, ma la mia vera passione è sempre stata lo studio, il momento in cui si crea e si registra. Il palco mi piace, ma non è mai stato la mia priorità: nella vita faccio anche altro, e forse è proprio questo che mi tiene ancorato alla sincerità del progetto musicale.

Quale messaggio vuoi comunicare con il tuo nuovo singolo?
Vorrei che i giovani riscoprissero il senso di una vita più semplice e diretta, quella di trent’anni fa. Per quelli della mia generazione, invece, il brano è un invito a ricordare i momenti colorati di allora: avevamo meno, ma forse eravamo più felici (e non lo sapevamo).

Due aggettivi per descrivere il singolo.
Nostalgico e portentoso.

Cosa ne pensi della scena musicale attuale? Cosa salveresti e cosa cambieresti?
Non amo giudicare chi crea, perché ogni epoca ha il suo linguaggio. Quello che mi lascia perplesso, piuttosto, è la modalità di fruizione: siamo passati dall’acquisto appassionato di cassette e CD a un click distratto su una playlist. È tutto più veloce, più effimero. Con 80.000 brani che escono ogni giorno nel mondo, diventare “ricordabili” è un’impresa titanica.

Come vivi il rapporto con i social network? Pensi che la visibilità che offrono sia più un bene o un male per la scena musicale?
Credo sia un bene, anche se spesso lo si interpreta nel modo sbagliato. Ai miei coetanei che dicono “avessimo avuto questi mezzi, chissà dove saremmo arrivati”, rispondo che oggi ci provano in migliaia, dai 15 ai 70 anni. La musica è stata completamente democratizzata, e se prima era difficile emergere, lo è anche adesso, solo in modo diverso. I social danno l’illusione di arrivare a tutti, ma in realtà ti obbligano a raccontarti meglio, ogni giorno.

Quali saranno i tuoi prossimi impegni?
Oltre alla promozione del singolo e del disco, sto scrivendo nuovi brani e definendo i dettagli del prossimo album, previsto per i primi mesi del 2026. E parallelamente continuo a lavorare sui miei progetti legati allo storytelling audiovisivo che è la base di tutto quello che faccio.


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